FIGLIO DELL’UOMO – romanzo

Capitolo III

L’oscurità crescente gli rende sempre più difficile seguire la traccia del sentiero e lo persuade a fermarsi. Oltre una fascia di sterpi cresciuti a ridosso di una massa rocciosa intravede l’apertura di una grotta. La raggiunge e vi si inoltra, protendendo le braccia a scansare eventuali ostacoli, mentre i piedi, preparati a muoversi su un terreno accidentato, incontrano un cedevole cumulo di cenere e, avanzando ancora, del fogliame sparso che manda un grato fruscio. Qualcuno lo aveva dunque preceduto in quel rifugio, e il constatarlo glielo fa più accogliente. Insieme con l’apprensione si smorza anche il vago senso di avventura che gli era riaffiorato dagli anni infantili, e quasi se ne rammarica. La pietra scabra pare voglia trattenere le dita che la vanno esplorando, gli trasmette un tepore che forse non possiede ma per lui è come lo possedesse perché i muri della sua casa sono della stessa sostanza. Il marmo non gli era mai piaciuto, così liscio che la mano vi scivolava via, e a vederlo ancora prima di toccarlo gli aveva dato un’impressione di freddo appena attenuato dalle venature.

Per il bisogno di tenersi occupato indugia nello stendere il mantello, nell’assestare la bisaccia come guanciale. Ed ora che si è deciso a sdraiarsi, qualsiasi cosa si offrisse alla vista o all’ascolto potrebbe servire allo stesso scopo. Ma l’orecchio coglie solamente un alito di vento, tanto lieve che non arriva a scalfire il silenzio, anzi lo aiuta ad esistere. E le due o tre stelle che uno spiraglio tra le rocce sporgenti dalla grotta e le punte degli sterpi gli permette di scorgere sembrano messe lì solo per imitare e ripetere il battito delle sue palpebre. Se prova a mantenerle chiuse per conciliare il sonno, aggiungendo al buio di fuori altro buio, esso si va in pochi istanti popolando di immagini. Vengono, si dileguano, ritornano, incalzandosi reciprocamente a contendersi la sua attenzione. Sono parvenze nelle quali i pensieri ancora fluttuanti si calano per non precisarsi, sebbene già pervasi dal presentimento che finiranno per convergere nel medesimo punto. Così da bambino egli vedeva sciami di moscerini vorticare intorno al lume che li avrebbe arsi, ed era inutile ogni tentativo di allontanarli. I cerchi che la sua mente percorre e ripercorre passano sopra i banchi dei venditori, le rovine di Gerico, la fonte del profeta Eliseo, la tana del lupo, la capanna del pastore, nella quale non ha voluto essere accolto. Può ancora alternare cerchi più distanti a quelli che si avvicinano progressivamente alla riva del Giordano, ma sarà lì che essi si arresteranno, riportandolo faccia a faccia con Giovanni.

I momenti dell’incontro si ripresentano in una successione differente da quella in cui li ha vissuti, affollandosi alla rinfusa. Alcuni particolari si sono appannati, altri hanno acquistato un’evidenza nuova, altri ancora emergono soltanto adesso, perché gli erano sfuggiti o li aveva dimenticati. Non più coinvolto nell’urgenza del loro accadimento, dovrebbe essere in condizione di riviverli considerandoli nell’insieme e soffermandosi su ognuno a suo agio, ma non gli riesce di separare le parole, gli sguardi, i gesti, i silenzi, dalla sensazione di sprofondare dentro se stesso, fusa con quella di slanciarsi fuori di se stesso in un vuoto senza confini. Non può separarli da un tremore in cui umiltà ed esaltazione, ritegno e temerarietà si avvicendano, formando un viluppo che avverte ancora nei precordi come un grumo impastato di carne e sangue. Troppo recente per essersi già sedimentato in un presente restituito dalla memoria, l’incontro con Giovanni sembra prolungarsi nel presente reale, conservando qualcosa di sospeso che rende ancora possibile un mutamento. Se prima si sentiva come sdoppiato fra il desiderio e il timore che l’incontro accadesse, ora lo è maggiormente fra il timore e il desiderio che sia accaduto. Si sorprende ad accorgersi che la realtà e la verità di esso non collimano, e la sua luce interiore non si è ancora abituata a rischiarare il margine incerto che le divide, così come i suoi occhi tardano ad abituarsi all’oscurità della notte e della grotta. Deve arrivare a convincersi interamente che l’incontro è avvenuto e si è concluso, e deve non solamente accettarlo ma impossessarsene, cercandogli dentro di sé un posto che non riesce ancora a trovare perché l’accaduto gli appartiene meno di quanto egli appartenga all’accaduto.

Volta il capo da un lato, e le briciole di pane rimaste nella bisaccia su cui lo tiene posato gli rispondono con un sommesso scricchiolio, procurandogli una fitta che non viene dalla fame: il cuore esige una rivalsa contro la volontà che lo ha trascinato nella desolazione di quelle montagne. Ha lasciato la casa di Nazareth senza rassicurare sua madre su dove sarebbe andato e su quello che avrebbe fatto, né lei può contare su alcuna notizia che le rechi qualche conforto nell’abbandono. A lui almeno è consentito di immaginarla nei luoghi familiari, intenta alle faccende quotidiane, rammaricata che siano divenute così poche per le giornate troppo lunghe di una donna sola. Ora trascurerà anche i pasti, lei che doveva già essere esortata dal marito e da lui a inghiottire un boccone in più, cuocerà il pane sempre più di rado. La rivede sciogliere il sale nell’acqua, versarvi la farina, impastarla, aggiungere il lievito e seppellirlo nella cavità che si richiude… Ecco, forse al suo incontro con Giovanni manca ancora quello che è il lievito per il pane.

Ha ripatito lo strappo del commiato sapendo che avrebbe alimentato i rimorsi, fornendogli l’appiglio per ritornare sulla decisione già presa. Per diminuire questo pericolo sarà quindi preferibile, quando faticherà a difendersi dall’invadenza dei ricordi, che egli si aggrappi a quelli più remoti, certamente meno brucianti di quelli recenti. Non deve abbandonarsi ad essi ma nemmeno respingerli, anche se è stato il proposito di un taglio netto con la vita di prima a portarlo dove ora si trova. Li affronterà tutti, siano essi legati alle vicende di cui ha gioito o a quelle di cui ha sofferto. Anzi, sarà lui a cercarli, in qualsiasi lontananza di luoghi o di anni si siano rintanati. Dovrà però tener conto che il tempo agisce anche su di essi, sebbene in modo più lento che sulle cose di fuori. E dovrà preoccuparsi di non svisarne il senso con le riflessioni che gli suggeriranno. Inoltre, poiché sa per esperienza che nella realtà le cose, quando sono troppo lontane o troppo vicine, arrivano agli occhi sfocate, si domanda se, per la sua infanzia da un lato e per l’incontro con Giovanni dall’altro, non capiti nello spazio della memoria altrettanto. Forse dovrà considerare i ricordi come gli scorci di un paesaggio che varia secondo il punto di vista e la distanza di chi lo guarda. Occorrerebbe osservarlo in tutta la sua estensione dall’alto per poter stabilire fino a che punto quello che esso appare corrisponde a quello che è.

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FIGLIO DELL’UOMO – EDIZIONI PAOLINE, MILANO 1989

e LA BIBLIOTECA DEL MESSAGGERO VENETO, UDINE 2004