Capitolo III L’oscurità crescente gli rende sempre più difficile seguire la traccia del sentiero e lo persuade a fermarsi. Oltre una fascia di sterpi cresciuti a ridosso di una massa rocciosa intravede l’apertura di una grotta. La raggiunge e vi si inoltra, protendendo le braccia … Continua a leggere FIGLIO DELL’UOMO – romanzo
Categoria: ANTOLOGIA
L’ULTIMA LIBERTA’
***
In un volo di ruote al noto valico
le nostre ombre vicine ci precedono
sul viale, tra immote ombre di tigli;
e sui margini il cielo dei fossati
le muta in chiare immagini a ripeterci
che qui, ora esistiamo. Foglie e aghi
di pino dall’inverno sotterrati
riassommano alla luce dell’accidia
dell’acqua in fiori nuovi. In levità,
come tu dentro il nome a cui somigli,
con la tua vita intera (anche la treccia
che non vidi) Versilia si raduna
nel mio sguardo se intorno esso divaghi
– e messaggera sulla carrareccia
morente nel declivio della duna
ci sorprende la brezza. S’aprirà
tra breve oltre i grovigli, oltre l’insidia
dei rovi litoranei, la lacuna
silvestre, familiare ai nostri esigli.
***
Come si fa di brace
o sbianca, non più quella,
se, non da me voluta,
a un tratto la distanza
ch’è tra noi due si muta,
se la mia mano avanza
tra i suoi capelli e già
sicura li scompiglia!
Dal mondo in un tremare
di palpebre si esiglia
tra paura e speranza,
e in abbandono il gesto
che tenta a sua difesa
come declina presto!
La bambina che era,
la donna che sarà,
con la sua vita intera
nel lampo delle chiare
iridi tra le ciglia
raccolta, ella sospesa
tace ed attende. E’ questo
se il bacio lo suggella
il buio che le piace.
***
Aprile incline a maggio
consumava nel bianco
del vestito all’altare
senza pena il commiato
che avevi nei pensieri
cominciato a settembre;
dalle stanze inquiete
della casa sul mare
al verde delle pinete
lievemente, con slancio
di rami nuovi e di voli
sui sentieri che amore
insegnava a noi soli,
ci inoltrava nel viaggio
due in uno per sempre;
ed eri così sottile
di vita, così sicura
nelle iridi, viva
sul sedile al mio fianco;
oltre il confine del treno
così pura tra odore
di primo fieno saliva
la linea delle colline
a incontrare il sereno.
***
Nel sonno a cui riversa
ti arrendi, che da questa
realtà ti cancella,
niente di me ti resta;
o sei di me cosciente
come la gola è della
vena che lievemente
pulsando l’attraversa.
***
A dirmi che non è soltanto immagine,
il volume del letto lieve avvalla
intorno a lei, per poco ancora illesa
dalla lama lucente che ha già infranto
i vetri e balenando nella tenebra
della stanza si spunta alle pareti.
Incontro alla sua anima che dorme
come il bianco nel folto della neve
in tenera compagine di forme
insieme col mio nome, lenta avanza
la mano sulla trama del lenzuolo,
ostacolo soave se il tremore
dell’attesa prolunga, se dà volo
celeste alla speranza, se del bene
immeritato che mi attende fa
più cocente il rimorso. Così breve
distanza mi separa dal suo fianco;
ma se giungessi a lei da più lontano
del raggio che in quest’attimo le sfiora
la veste suggerendo sulla spalla
la curva della carne, e in volto alfine
le si posa esitante sillabandole
sulle palpebre il giorno, non più grato
mi sarebbe approdare alla struggente
sua certezza di rosa senza spine.
***
Dicembre nella stanza
vuota mi inoltra. Duole
agli occhi quel riflesso
di sole che si insinua
dalle persiane. Sole
sul bianco del soffitto
due mosche immote stanno.
Ma la vita continua
dicono. Il raggio fruga
inquieto l’ombra, sfiora
il letto intatto. Dentro
lo specchio c’è una fuga
di oggetti che ti ignorano.
Rigermina, all’inganno
del raggio, una precaria
estate. Ed ebbre, adesso,
le mosche in una danza
d’amore e morte vanno.
La vita è così varia.
D’oro per un momento
palpitano nell’aria;
poi giù sul pavimento
scendono a capofitto
come la mia speranza.
***
Nel deserto del letto
bocconi, su di un fianco,
riverso (eguali in alto
le ore il vuoto, bianco
quadrante del soffitto
ripete), nel bruciore
degli occhi (ho letto, scritto,
fumato), cieco brancolo
in questa sonnolenza,
nemmeno inferno, limbo
che lentamente svena
i sensi e lascia il cuore
più vivo alla cancrena
dei sogni, alla tua assenza;
mentre, a eguale intervallo,
gocciola sullo smalto
gelido, con un timbro
eguale di metallo,
un filo d’acqua senza
pietà dal rubinetto.
***
Rassegnarmi, alla fine
dovrò anch’io, dopo tanto,
dicono. Ma per via
camminando, l’agguato
teso dalle vetrine
se non sei lì, al mio fianco;
o, nella merceria
dove entravi, lo schianto
solo per una scatola
che si apre sul banco,
e ne escono forcine.
***
Ecco viva a me torni, ecco rimuori
dentro un battito e l’altro delle palpebre,
a un angolo di strada, se improvvisa
nell’assenza degli occhi una mi stia
che un niente dice come te vestita.
Il cuore in soprassalto vuole credere
alle pieghe fluttuanti che a ventaglio
giù dal nodo sottile della vita
per i fianchi si irraggiano, alla stria
di vene che la calza suggerisce;
nella linea inquieta che inacerba
la forma della gamba ti ravvisa,
nella grazia esitante dell’incedere.
Poi la luce, crudele come il taglio
della falce, l’immagine riverbera
di un’estranea che ignara restituisce
alla morte il tuo volto, i tuoi colori.
***
Volevi essere mia
come nessuna è stata
ad uomo in terra mai:
Lilith, Eva, Maria.
Come nessuna amata,
facevi una mattina
di ogni mia giornata,
quando di stanza in stanza
un passo adolescente
andava, di bambina
cresciuta troppo presto,
e un ridere di niente
bastava alla speranza.
Poco durò. Non era,
vivere, solo questo.
Almeno più leggera
la terra del mio strazio
io prego che ti sia,
ora che in breve spazio
ti accoglie, a lei tornata
per rimanere mia
come nessuna è stata
ad uomo o sarà mai:
Lilith, Eva, Maria.
***
Quello che ormai sul volto
non si tradisce, a gesto
più non si affida, strazio
che del proprio rovello
in cuore si alimenta
e, piena senza foce,
se cerca un varco, presto
il silenzio lo inghiotte,
prima che giunga in gola;
lo strazio che in sé muore,
perché se in grido aperto
straripa, se in parola
di liberarsi tenta
tu sai che a orecchio umano
è voce nel deserto –
lontano, oltre la notte,
a lei per altro spazio
andrà, sarà raccolto.
***
Impara dalla foglia
di novembre che vedi
sciogliersi dalla spoglia
pianta nella precaria
luce in punta di piedi;
dalla foglia che sa
prima d’essere morta,
persuadendosi a un lieve
gioco col filo d’aria
che alla terra la porta,
fare di ciò che deve
l’ultima libertà.
***
L’ULTIMA LIBERTA’ – MONDADORI, MILANO 1962
L’AGA DAL TAJAMENT
IL GNO PAÎS (1946) ‘I sei dopo tanc’ ans tornât al gnò paîs. Ma i muàrz ‘a son lontàns e plùi lontàns i vîs. Una volta ancia i clàs ‘a vevin vous, par me. Cumò il gnò cûr si pàs di ce che plùi nol … Continua a leggere L’AGA DAL TAJAMENT
BARBA ZEF e JO’
BARBA ZEF E JO’
Fâ la me part par finta
dentri una storia vera
nol mi pareva bièl
e di sigûr no l’era.
Alc ancimò mi incolpa
di vèi metût ta grinta
di Barba Zef apena
la scussa da me pièl,
là ch’a coventa polpa
di ciàr ch’a dûl l’intèra
vita, sanc ch’a si svena
fin che la muart l’à vinta.
***
TAL LÂC
Il mont al disgredèa
i grops dal penc’ al râr,
salvant, fra ce ch’al pâr
e al è, la marivèa.
***
SERA
Il troi al si staca da strada
e al si invia su par i cuèi,
ma apena rivât a la svolta
al samèa ch’al si dismentèi
di lâ. Il ciampanîli, sunada
l’ora di gnot, cumò al scolta
las cîsas discori sotvòus,
intant che il tèi al samèna
l’odôr da sera su las cròus
insiema cun l’ultima ombrena.
***
L’ULTIM
Cui sarà il quint o il sest,
tu, jò, l’ultim coscrìt,
cumò ch’a son za lâz
in quatri? Nomo un tai
nol basta a la salût
di doi ch’a si ùlin ben.
Quant che il vêri al è râs
di blanc o ross, si rit,
quant ch’al è vuèit, si vài.
Cul pat sotintindût
di restâ simpri grâz
pal flât in plui ch’al ven
dì daûr dì dal câs,
savint ch’al è ad imprest.
***
IL MISTÎR
Gno pâri, muradôr
tâl e quâl che so pâri,
al à doprât madòn,
pièra, malta, ziment,
par alzâ simpri dret
il mûr, al pâr da vita.
Tal gno mistîr da lôr
doi al sarà ch’j’ impari,
se un qualchi alc di bon
al mi ven indiment
in ta fadìa ch’j’ met
su la pagina scrita.
***
Barba Zef e Jo’– Centro Editoriale Friulano, Udine 1985
MATIA MOU
NAUFRAGIO Trascinarsi randagio dall’uno all’altro pasto non abolisce il giorno, non ferma nei precordi il bisturi che affonda; e adesso, a notte, intorno al guanciale che mordi il letto è così vasto dall’una all’altra sponda che certo è il tuo naufragio. *** COMMIATO DALLA … Continua a leggere MATIA MOU
IL GRILLO DELLA SUBURRA
IL GRILLO DELLA SUBURRA – III
Il grillo, non sai come giunto
dall’ariosità di una tana
agreste o di un’aia quieta
qui in un’estranea foresta
di pietra che ha nome di città
fra case in cui più non crepita
fiamma di focolare, a spremere
da un attrito aspro, da un moto
immoto, da un annaspo di elitre
e di ali un dolente stridore
in uno stillicidio monotono
di note, illudendo di momento
in momento gli occhi in dissidio
con gli orecchi a credere si celi
insieme prossimo e remoto
sul davanzale della finestra
a cui ti affacci interdetto
o in una crepa della parete,
lassù fra le travi del tetto
oppure sopra la cornice
del casamento dirimpetto,
il grillo, poco più d’un punto
nel buio, un grumo disperso
di vita in sé scisso ed assunto
nel magma in cui l’universo
fluisce, ti chiedi che dice
e ripete a sé solo per ore
ed ore, che cosa lo muove
a quello sbattimento, verso
dove o chi trepida la voce
che si confonde nello strepito
atroce come un’eco, tace
e subito riprende tra unìsono
e controcanto nel suo gracile
metro a interrogarsi e rispondersi.
***
I FILI
Se vuoi che ti somigli
non avventarti all’atto
come al taglio la lama:
troppo presto si usura
l’ordito in cui s’intrama
perché si inveri, senza
che il caso e la natura,
la presenza e l’assenza
trovino il modo adatto
per intrecciare i fili.
***
LE SCHEGGE
Lascia il calcolo esatto
di mezzi e fini, a trarne
utile e vanto, ad altri.
Non ridurre allo scatto
d’un congegno gli eventi,
meglio se come schegge
ti entrino nella carne.
Scruta in essi la traccia
incerta d’un riscatto
cui natura, nei salti
rari che fa, si attenti
sulla via che da legge
a libertà l’affaccia.
***
GRANO E LOGLIO
Con protervia ventenne
a chi la sua ti porse
negasti la tua mano
avversa ai compromessi.
Fu ciò che dopo avvenne
a insegnarti che forse
il loglio aiuta il grano
più di quanto credessi.
***
LA FOGLIA E TU
La foglia non si sente più sola
sul ramo, ora che l’hai accolta
nel tuo sguardo. Ecco esita, vola
per la prima e per l’ultima volta.
Chiedi al filo d’aria che la porta
almeno un indugio prima che tocchi
il suolo. Non si sentirà morta
finché non l’abbandoni con gli occhi.
***
APPROSSIMAZIONI ALL’ARTE POETICA
I.
Se ti resta un talento
di tanto spreco fatto
sul bianco delle pagine,
spendilo in vita: l’atto
può adeguarsi all’intento,
non il segno all’immagine.
V.
Forse potrai sapere
questo da un’infinita
serie di tentativi:
la verità, la vita
non fanno vive e vere
le parole che scrivi.
XII.
Dato che prima o poi,
anche senza motivi
come avviene tra amici,
tradisci o ti tradiscono
le parole che scrivi
quanto quelle che dici,
unico scampo al rischio
è il tacere, se puoi.
XV.
Non pretende la valva
la rinuncia alla pesca
dall’uomo cui la perla
è pane, o meno acuta
la lama, ad ottenerla.
Ma spera gli rincresca
l’atto: mettervi un poco
di leggerezza aiuta,
illude sia per gioco,
e la forma si salva.
***
IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990 (III edizione)
DA BRACE A CENERE
CRONOTOPO III. E tu, provvisoriamente sazio di pubbliche relazioni e libri biodegradabili, puoi, sgombra la mente dai furori astratti in cui per rivalsa ti infogni, riversarti adesso all’intorno e immergerti intero nei fatti, ad accogliere partecipe ogni parvenza che ti rechi il giorno di questa … Continua a leggere DA BRACE A CENERE